Capitolo III
Competenza
Valendoci dell'esame relativo al titolo che nelle varie epoche le due preture assunsero, possiamo ora stabilire la competenza che fu loro assegnata.
Come sopra accennato, il Daube afferma che solo dall'età di Augusto il pretore peregrino avrebbe potuto “ius dicere inter cives et peregrinos” e che per l'età precedente questo magistrato avrebbe avuto competenza soltanto fra “peregrini”. In effetti (1) non è possibile parlare di competenza in termini così ristretti, inoltre nel 242 a.C. ossia quando fu creato il pretore peregrino, rapporti fra stranieri in Roma ve ne potevano essere, ma in misura sicuramente minore rispetto a quelli fra stranieri e cittadini. Di conseguenza se il pretore peregrino avesse dovuto “ius dicere” solo fra stranieri, non vi sarebbe stata ragione di istituire una nuova pretura per il disbrigo di un lavoro così esiguo, continuando il pretore urbano ad essere gravato di una mole di lavoro in netta sproporzione rispetto al collega. In questo caso infatti,il pretore urbano avrebbe dovuto “ius dicere” sia “inter cives” che “inter cives et peregrinos”.
Pomponio, del quale si è fatta menzione in precedenza, che ha motivato la creazione della seconda pretura nel 242 a.C. sulla base del gran numero di stranieri che venivano a Roma, e della impossibilità per il primo pretore di sostenere da solo tutta quella gran mole di lavoro giudiziario, dicendo che “creatus est et alius praetor, qui peregrinus appellatus est ab eo, quod plerumque inter peregrinos ius dicebat” (D.1,2,2,28), intende porre un confronto in fatto di competenza fra i colleghi delle due preture. Infatti nel precedente paragrafo 27 aveva affermato “... qui urbanus appellatus est, quod in urbe ius redderet".
Ragioni di ordine pratico imposero lo spostamento di competenza per le liti “interveniente peregrini persona”. Quando dunque Pomponio dice fu chiamato peregrino “quod plerumque inter peregrinos ius dicebat”, mette in evidenza due tipi di controversie che il nuovo pretore a partire dal 242 a.C.. avrebbe risolto: quelle “inter peregrinos” e sussidiariamente quelle “inter cives et peregrinos” (2). Il Daube ha interpretato questo testo asserendo che l'autore del l'”Enchiridion” non si sarebbe riferito all'antitesi tra cause “inter peregrinos” e cause “inter cives et peregrinos”, ambedue facenti parte della competenza del pretore peregrino, ma a quella tra cause “inter peregrinos” e “other jobs for which this magistrate was at one time freely employed” (3).
Il Daube aveva motivato la sua interpretazione con l'affermare che dal 215 a.C. al 198 a.C. ad esempio era frequente l'impiego del pretore peregrino in guerra. Inoltre, sebbene la prima contrapposizione risulti essere più aderente alle circostanze, e lo stesso Daube lo ammette, la seconda gli appare più vicina al pensiero di Pomponio; questi dunque avrebbe inteso distinguere, secondo il Daube, le funzioni giurisdizionali da quelle militari, quindi non giurisdizionali per le quali veniva impiegato di tanto in tanto dal senato.
Sono però necessarie alcune considerazioni: innanzitutto (4) bisogna dire che Pomponio scrisse in un'epoca, quella degli Antonini, durante la quale il nuovo titolo “inter cives et peregrinos” si era affermato ufficialmente da almeno tre secoli, egli dunque evidenzia la competenza che il pretore peregrino aveva nel III sec. d. C. anticipando “in certo senso alle origini la comptenza che il magistrato aveva ai suoi tempi”. Egli trascurando del tutto le ragioni che prima della “lex Aebutia”
determinavano una distinzione in fatto di competenza, giustifica l'istituzione della pretura peregrina
sulla base di ragioni di ordine pratico (5).
L'interpretazione data, chiarisce in modo convincente il fatto che non può conseguentemente parlarsi di impiego di questo pretore in occupazioni giurisdizionali e non, cosi come il Daube vorrebbe pensare.
Il “plerumque inter peregrinos ius dicebat” (6) evidenzia invece, secondo l'intenzione di Pomponio, l'esistenza di due funzioni: prevalenti e supplementari. Le prime relative a controversie interessanti lo straniero (sia che litigasse con uno straniero che con un cittadino) che gli davano il titolo; le seconde riguardanti controversie fra soli “cives” ed utili ad alleggerire il carico di lavoro del collega urbano gravato essenzialmente da questo tipo di controversie.
In base alle considerazioni fatte nel secondo capitolo (7) e in base all'argomentazione tratta dall'esame dell'”έπί” che troviamo in alcune iscrizioni in lingua greca (riferentesi al pretore peregrino), si può dire che il pretore peregrino almeno fino alla “Lex Aebutia” non poté “ius dicere inter cives”. Poteva accadere però che un cittadino fosse convenuto in un processo citato da uno straniero attore, o anche viceversa. Erano questi casi non infrequenti dovuti all'ampliamento dei traffici e all'intensificarsi di rapporti commerciali che dovevano portare un gran numero di mercanti stranieri in Roma e facevano nascere di conseguenza la necessità di regolare giuridicamente la posizione di questi rapporti e soggetti. Il pretore peregrino, ereditò oltre quelli “inter peregrinos”, che costituivano una piccola quota. anche i processi che prima del 242 a.C. rientravano nella “iurisdictio urbana”.
Non si può essere dunque d'accordo con il Daube, quando interpreta il “plerumque” del passo di Pomponio, come una contrapposizione tra funzioni giurisdizionali e non, giacché altrimenti (8) anche il pretore urbano, che poteva avere incarichi militari (perciò non giurisdizionali) avrebbe dovuto essere designato come colui che “plerumque inter cives ius dicebat”, cosa questa che non avvenne mai.
Il periodo che precede questa legge è caratterizzato da una distinzione di competenza, s'è voluto porre in evidenza preliminarmente questa caratteristica, sin dal capitolo relativo alla creazione (9). Questa distinzione, lo ripetiamo, trovava la sua ragione formale nello “status civitatis”, ma sostanzialmente risiedeva nella differenza di “modus agendi. Non potendo infatti i “peregrini” fruire del sistema delle “legis actiones” il pretore urbano si sarebbe valso prima del 242 a.C. del potere di “imperiurn” per risolvere controversie “interveniente peregrini persona” e del “ius civile” per controversie “inter cives”.
La prima "funzione" sarebbe poi passata nel 242 a.C. al pretore peregrino.
Oltre che processualmente questa distinzione esiste sotto un profilo istituzionale. Infatti molti fenomeni, attestati dalle fonti del periodo preebuzio, confermano il sistema delle competenze separate e della non interferenza nell'attività esplicata fra le due preture (10) per quanto riguarda il titolo attribuito al magistrato che assumeva entrambe le cariche, nei casi in cui il collega dovesse essere impiegato per scopi militari. In questi casi il Senato, prima della “sortitio”, onde poter disporre di uno del pretori, affidava la funzione del collega che doveva essere inviato in guerra, ammettiamo per ipotesi il pretore peregrino, all'altro pretore che restava in città, sicché quest'ultimo assumeva entrambe le funzioni, che rimanevano distinte. Infatti questi veniva designato (11) col titolo: “praetor urbanus et inter peregrinos”.
Cosi anche riguardo al fenomeno della (12) “traditio” o del “mandatum iurisdictionis” rispettivamente trasferimento o delega di giurisdizione.
In base alla “traditio” uno dei due pretori “trasferiva”, su deliberazione del Senato, la propria “iurisdictio” al collega che assumeva entrambe le funzioni.
Nell'ipotesi invece di “mandatum”, il pretore, cui veniva “delegata” la giurisdizione del collega impegnato in guerra, rimaneva titolare di una funzione soltanto; tornato in città quello dei due che era stato inviato fuori di essa, riassumeva la funzione precedentemente delegata e della quale nel frattempo era rimasto titolare.
Sia l'uno che l'altro fenomeno ci danno delle indicazioni precise in merito al rapporto intercorrente tra le due preture.
Dai fenomeni sopra messi in rilievo deriva un rapporto di competenze speciali e la negazione dunque del principio della collegialità. Inerente a quest'ultimo è il potere di “intercessio” (13), ossia il potere di intervento negativo di un collega sugli atti dell'altro.
Ora, abbiamo constatato che il sistema esistente non era collegiale, essendo l'”intercessio” uno strumento tipico di un sistema di perfetta parità fra colleghi, dunque collegiale, bisogna da ciò dedurre che esso non dovette operare, almeno finché non si attuò una certa interferenza nell'esercizio delle funzioni dei due pretori: e questo abbiamo visto, accadde a partire dalla “Lex Aebutia”, che rese possibile un identico sistema processuale per le liti “inter peregrinos” e per quelle “inter cives”. Cicerone (in Verrem II,1,46,119), e Cesare (De bello civ. 3,20) (14) fanno menzione, rispettivamente nel 74 a.C. e nel 48 a.C., di “intercessiones” di un collega nei confronti dell'altro.
Ora il primo esempio di “intercessio” risale al 74 a.C., ossia ad un periodo di poco meno di un secolo dalla “lex Aebutia”.
Ciò conferma la ricostruzione fatta sopra: cioè, che da questa legge il rapporto si modificò rispetto al periodo precedente ad essa. Dunque più che pensare alla mancanza di fonti in merito all'esistenza di questo istituto, per il periodo preebuzio, è più probabile, anzi più rispondente al vero, l'ipotesi di cui sopra, e cioè che prima della “lex Aebutia” non si potesse parlare di “intercessio”, a causa dell'assenza di una effettiva collegialità fra i due pretori.
L'argomentazione relativa alle azioni nelle quali “civitas romana peregrino fingitur” si pone a definitiva riprova dell'ipotesi qui sostenuta. Infatti alcuni affermano che questa “actio (ficticia)” sarebbe stata adottata per applicare lo stesso “modus agendi” nei rapporti tra romani e stranieri, dal momento che questi ultimi erano esclusi dal sistema delle “legis actiones” (15).
Coloro che appoggiano questa posizione sono indotti ad affermare che dall'esistenza delle“formulae
ficticticiae” si possono ricavare elementi probatori in favore dell'origine del processo formulare nella “iurisdictio urbana”. Infatti il pretore urbano, unico magistrato allora esistente, avrebbe, in forza del suo “imperium”, potuto “ius dicere” su queste controversie, proprio perchè non era ancora stato creato un organo giurisdizionale apposito. In tal modo il pretore urbano avrebbe creato “iudicia imperio continentur” con il risultato dunque di anticipare l'applicazione di un “modus agendi” come appunto quello “per formulas”.
La ragione di queste “actiones” va cercata invece, molto probabilmente, nella necessità di “applicare norme materiali civilistiche a fattispecie concrete cui per lo “status” di uno dei soggetti non sarebbero state applicabili” (16).
Negando questo assunto si va contro tutto uno sviluppo storico accertato sulla base di fonti. Ma anche volendo ipotizzare il sorgere delle “actiones ficticiae” prima del 242 a. C. innanzi all'unico “praetor” del tempo, queste sarebbero sempre sorte a proposito della giurisdizione sugli stranieri e poi entrate nella competenza del pretore peregrino. In questo modo non si perdono di vista le ragioni storiche e, all'interno di queste, le condizioni economiche reali del tempo che condussero ad adottare una soluzione del genere (17).
Gaio (4,30) ci tramanda la notizia di questo avvenimento, dicendo che il sistema delle “legis actiones” era formalistico e arcaico a tal punto da far perdere la lite a colui che avesse commesso anche il minimo errore nella forma; contrappone dunque “il rigore e la limitatezza delle legis actiones con la molteplicità e libertà delle formulae” (18).
Una volta emanata la “lex Aebutia” si ebbe un affievolimento per ciò che riguardava l'originaria distinzione fu competenza nelle due “iurisdictiones” e questo a causa dell'uso, in entrambe le corti, del medesimo “modus agendi”, il sistema formulare, potendo però nel contempo i “cives” continuare ad essere tutelati dal sistema delle “legis actiones”. Abbiamo già in precedenza preso in esame (19) il primo documento che, in ordine di tempo, attesta un affievolimento della distinzione in fatto di competenza: la “Lex Agraria Epigrafica” del 111 a.C..
A riprova dell'ipotesi messa in rilievo in base all'esame della “Lex Agraria”, prendiamo in considerazione (20) l'”edictum damni vi hominibus armatis coactisve dati” e “vi bonorurn raptorum” ricordato da Cicerone in Pro Tullio 4-5, paragrafi 8-12.
A parte le considerazioni relative al nuovo mezzo processuale e il confronto di questo con l'”actio legis Aquiliae”, ciò che dobbiamo notare con attenzione è l'estensione di competenza acquistata dal pretore peregrino nelle controversie tra “cives”.
Innanzitutto, storicamente la creazione del nuovo mezzo processuale ad opera del pretore M. Lucullo si ebbe nel 76 a.C. e nacque per porre un freno alle violenze commesse dagli schiavi impiegati dai loro padroni per tale scopo.
L'editto sostituiva al criterio dell'”iniuria” e “corpora” (dell'”actio legis Aquiliae”), quello del “dolo malo”, quale elemento costitutivo del crimine.
Si differenziava dall'”actio 1egis Aquiliae” perché avendo come elemento costitutivo il “dolo malo” poteva colpire più intensamente questi crimini con l'ausi1io di una procedura più agile e spedita (21).
Perciò la funzione di questo nuovo mezzo processuale, era quello di essere più repressivo rispetto a quello contenuto nella “Lex Aquilia”, incutendo quindi timore; ma contrapponendo la limitatezza e l'insufficienza della “Lex Aquilia” con la vastità dell'”edictum damni vi hominibus armatis coactisve dati” (22), implicitamente Cicerone afferma che questo mezzo si esplicava nei confronti di quei soggetti che avrebbero patuto agire o essere convenuti in base alla “lex Aquilia”: dunque i “cives”. M. Lucullo inoltre introdusse questo mezzo probbilmente da pretore peregrino. Ciò è confermato da un passo contenuto nell'orazione “in toga candida” di Asconio (23) che qualifica inequivocabilmente il pretore M. Lucullo quale “praetorem qui ius inter peregrinos dicebat”.
Ne esce confermata così l'ipotesi di un ampliameto di competenza del pretore peregrino. Chi al contrario (24) nega questo allargamento di competenza afferma che divenne applicabile ai “cives” sulla base di una recezione di questo mezzo “nell'albo del pretore urbano” che ne avrebbe esteso l'applicazione ”inter cives”.
Ma il ragionamento fatto sopra regge a questa conclusione.
L'argomentazione contenuta nella “lex de Gallia Cisalpina” si pone a definitiva conferma dell'ipotesi proposta.
La data della legge si può porre (25) tra il 49 e il 42 a.C.; essa aveva la funzione di fissare norme giurisdizionali, la Gallia Cisalpina, essendo stata eretta a municipio. Il problema risiede nell'interpretazione rispetto al rinvio contenuto nella formula dell'”actio ficticia” alla “stipulatio” “quam is quei Romae inter peregrinos ius dicebat in albo propositam habet” del cap. XX della legge. Questa frase ha ispirato una molteplicità di ipotesi alI'interno della romanistica, ma tutte insoddisfacenti (26).
Innanzi tutto consideriamo l'argomentazione di natura logica, che ben darebbe ragione dell'allargamento di competenza del pretore peregrino: (27) con l'andar del tempo la progressiva concessione della cittadinanza ai popoli conquistati (così come accadeva nella Gallia Cisalpina), provocando l'ampliarsi di competenza del pretore urbano, avrebbe posto i medesimi problemi (pratici) che spinsero alla istituzione della “iurisdictio peregrina”.
Ma a parte questo, un'altra argomentazione può trarsi dalle fonti.
La “Lex” (28) nei quattro capitoli che ci sono pervenuti attraverso la “tabula Veleiana”, attribuisce ai magistrati municipali particolari poteri: in base ad essa il tribunale dei IIviri o dei IIIIviri poteva “iubere caveri praetoria stipulatione” e (29) “conseguentemente concedere l'actio ficticia contro colui che non aveva voluto prestare la cautio damni infecti impostagli dal decreto”. In sostanza il tribunale dei IIviri esercitava la “iurisdictio” del magistrato superiore con il riferimento alla “stipulatio” contenuta nell'editto del pretore medesimo. Ciò avveniva in virtù di una delega operata dal pretore; questa delega favoriva l'esercizio di funzioni non comprese nella “iurisdictio” dei magistrati municipali attribuendo poteri “magis imperii quam iurisdictionis” (30).
La formula dell'”actio ficticia” che faceva il rinvio alla “praetoria stipulalio” era: “Sei antequam id iudicium q.d.r.a. factum est, Q. Licinis damnei infectei eo nomine q.d.r.a. ea stipulatione, quam is quei Romae inter peregrinos ius deicet in albo propositam habet, L. Seio satis dedisser rell.” (31).
Ciò prova che doveva essere il pretore peregrino il magistrato competente sui “novi cives” della Gallia Cisalpina. Il rinvio potrebbe (32) forse spiegarsi diversamente “nel senso che la legge mutuava dall'editto del pretore peregrino la disciplina dell'istituto”. Ma l'ipotesi sopra addotta risulta convincente nel senso esposto.
A conclusione dell'indagine del periodo postebuzio è opportuno tornare sulla testimonianza che le fonti ci tramandano relativa al potere di ”intercessio”.
Già in precedenza (33), quando è stato trattato il periodo preebuzio, si è potuto notare come la mancanza, per quel periodo, del potere di “intercessio” fosse un indizio piuttosto sicuro a favore della mancanza della collegialità fra i due pretori e che quindi si fosse in presenza di un sistema a competenze rigidamente distinte.
Le fonti in precedenza addotte che forniscono i primi esempi di “intercessiones” fra colleghi delle preture cittadine si collocano in epoca repubblicana, nel 74 a.C. (Cicerone, in Verr. II, l, 46, 119) e nel 48 a.C. (Cesare, De Bello civ. 3, 30). Questi documenti si pongono a definitiva conferma dell'ipotesi che qui si sostiene (34).
L'espansione di Roma aveva resa necessaria una oganizzazione più capillare del territorio conquistato (vd. organizzazione sillana), la concessione della cittadinanza ai popoli di territori conquistati inevitabilmente portava a sovraccaricare il pretore urbano di nuove controversie e ad alleggerire il pretore peregrino.
Abbiamo potuto verificare in base all'esame delle fonti come l'ordinamento processuale romano reagì a questa situazione di sproporzione negli impieghi dei due pretori: dalla “lex Aebutia” in poi, potendo il pretore peregrino “ius dicere” anche “inter cives”, veniva ad equilibrarsi l'attività del collega urbano.
Si sarebbe potuto avere così un'interferenza dell'attività del pretore pergrino nelle funzioni che erano proprie del pretore urbano (ossia “inter cives”), che rendeva possibile l'esercizio del potere di opporre il veto agli atti del collega.
In precedenza (36) abbiamo verificato l'infondatezza della posizione del Daube: ricordiamo brevemente che egli asseriva che solo da Augusto, dal momento che il cambiamento di denominazione si verificò all'incirca sotto Augusto, il pretore peregrino avrebbe potuto “ius dicere” anche “inter cives”. Ma abbiamo dimostrato che questo ampliarsi di competenza si era verificato già tempo addietro.
Tornando all'editto di Venafro, esso può essere un ulteriare argomento in questo senso e dunque sarà opportuno esaminare le norme contenute in esso che riguardano la giurisdizione sulle acque.
In epoca repubblicana alcuni documenti in materia di acque (37) fanno riferimento al pretore urbano o ai “praetores” quali autorità cui venivano affidati gli incarichi giurisdizionali in materia di acque. Cosi come in Festo (38), in Frontino (“de acquaeductu urbis Romae”, 71) o in C.I.L., X, 8236 (39) i
quali mostrano quale autorità normalmente competente a “ius dicere” nelle controversie in materia di acque il pretore urbano; è probabile che nei casi in cui uno straniero fosse intervenuto quale attore o convenuto contro un cittadino, il pretore peregrino intervenisse, ma le fonti tacciono in merito.
L'editto, dal canto suo, stabiliva che l'amministrazione dell'acquedotto fosse affidata ai magistrati cittadini, mentre la giurisdizione veniva deferita al pretore. Queste controversie si svolgevano (40) secondo il rito ordinario pur essendo di natura amministrativa, e la competenza ricadeva sul pretore quando quella dei magistrati locali (Ilviri) si esauriva in ragione del valore o della natura della controversia.
Il pretore di cui si parla nell'editto però non è quello urbano, bensì quello peregrino come viene chiaramente indicato alla l. 64 e questo non è assolutamente conciliabile col ritenere che ancora al tempo di Augusto la pretura peregrina restringesse la propria sfera di competenza alle liti “interveniente peregrini persona”. E' vero che dal tenore dell'editto si ricava che Augusto fosse più interessato a dettare norme riguardanti il giudizio recuperatorio che a stabilire una competenza speciale del pretore peregrino, ma dall'indicazione del pretore peregrino, per la prima volta denominato nelle fonti come “praetor qui inter cives et peregrinos ius dicet”, quale autorità competente in materia giurisdizionale, non possono non trarsi conclusioni nel senso della possibilità del pretore peregrino di “ius dicere inter cives” (41).
Ciò conferma la linea di sviluppo storico seguita fino a questo momento, nel senso di un continuo ampliamento di competenza del pretore peregrino “inter cives” (42).
Inoltre se si volesse pensare che fu l'editto augusteo ad introdurre per la prima volta la “iurisdictio” del pretore peregrino “inter cives”, in ogni caso ciò dimostrerebbe che era divenuta una normalità la
competenza anche “inter cives”.
E' però difficile pensare al venir meno del criterio di rigida demarcazione in fatto di competenza fra le due preture in forza di un editto imperiale degli inizi del principato (43).
Come in precedenza detto, con la “lex Aebutia” il “modus agendi” fu il medesimo sia nei processi fra stranieri che fra cittadini; la concessione della cittadinanza ai popoli conquistati, provocando un aumento del numero dei “cives” condusse ad un conseguente restringimento del numero dei “peregrini”.
Ne derivò un maggiore impegno per il pretore urbano e un minor carico per il pretore peregrino Niente di più logico che allargare la sfera di competenza del pretore peregrino alleggerendo quella del pretore urbano: è quindi questa la ragione per cui le fonti non fanno menzione del pretore urbano come avente “iurisdictio” fra stranieri, e menzionano invece la competenza del collega peregrino “inter cives”.
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(1) F. Serrao, Iurisdictio del pretore peregrino, Milano, 1954, pp.16, ss.; G. LOMBARDI, Sul concetto di “ius gentium”, Roma, 1941, p.10 nt.1.
(2) F. Serrao, Iurisdictio del pretore peregrino, Milano, 1954, p.194, nt.1.
(3) D. Daube, The peregrine praetor, in Journal of Roman Studies, London, 1951, p. 66.
(4) F. Serrao, op. cit. p.194 nt.1.
(5) F. Serrao, op. cit., p.194.
(6) F. Serrao, op. cit., p.13.
(7) vd. Cap. II nt.5 ss.
(8) F. Serrao, op. cit., p.194.
(9) vd. Cap. I nt.12 ss.
(10) F. Serrao, op. cit., p.22.
(11) S.C. de Asclepiade 1.2.
(12) F. Serrao, op. cit., pp.23 ss..
(13) F. Serrao, op. cit., pp.31 ss..
(14) F. Serrao, op. cit., p.34.
(15) G.I. Luzzatto, Procedura civile romana, vol.III: La genesi del processo formulare, Bologna, 1948, pp.129-131; A. Biscardi, Recensione critica a G.I. Luzatto. Procedura civile romana, vol.III: La genesi del processo formulare. Bologna, 1948, in Iura II, 1951. pp. 295-297.
(16) F. Serrao, op. cit., p.46.
(17) vd. Capitolo 1.
(18) C. Gioffredi, Su Gai 4.30. in SDHI 44, 1978. p.438.
(19) vd. Cap. II nt.15.
(20) F. Serrao, op. cit., p.74.
(21) F. Serrao, op. cit., p.76.
(22) F. Serrao, op. cit., p.82.
(23) 75 (Kiesling-Schoell) = 84 (Clark).
(24) F. Bonifacio, Recensione critica a F. Serrao, La “Iurisdictio del pretore peregrino”, Milano, 1954, in Iura VI, 1955.
(25) F. Serrao, op. cit., p.91.
(26) F. Serrao, op. cit., p.98.
(27) F. Serrao, op. cit., p.132-137.
(28) F. Serrao, op. cit., p.92.
(29) F. Serrao, op. cit., p.93.
(30) F. Serrao, op. cit., p.92.
(31) F. Serrao, op. cit., p. 94.
(32) F. Bonifacio, Recensione critica cit., p.243.
(33) Vd. Cap. III nt.13 ss.
(34) F. Serrao, op. cit., pp.132 ss.
(35) F. Serrao, op. cit., p.141.
(36) Vd. Cap. II nt.12 ss.
(37) F. Serrao, op. cit., p.161.
(38) F. Serrao, op. cit., p.161.
(39) F. Serrao, op. cit., p.163.
(40) F. Serrao, op. cit., p.164.
(41) F. Serrao, op. cit., p.166.
(42) F. Serrao, op. cit., p.166, nt.39.
(43) F. Serrao, op. cit., p.145, nt.26.